Con tanto amore, Mario
Mario è un nome comune per un uomo comune. Mario è un ex postino che vive il momento finale della vita o forse dà fine ad una “vita” per ricominciarne un’altra nuova. Uno spettacolo della compagnia ASTORRITINTINELLI, tragicomico, muto e in bianco e nero con Paola Tintinelli che racconta con straordinaria potenza espressiva e poetica, il sentimento di disperata e inerme estraneità che il suo protagonista Mario, un uomo qualunque, prova davanti al mondo e alle ineluttabili perturbazioni che la vita esterna e interiore gli riserva. Sulla scena un armadietto di ferro, quello di un ex postino, che contiene gli oggetti che accompagnano la routine di questo essere poetico, la sua vita piena di cose, sguardi, suoni e gesti, e vuota di relazioni con gli altri, in continua ricerca di un senso di appartenenza, la sua solitudine…
di e con Paola Tintinelli
produzione Compagnia ASTORRITINTINELLI
durata 60′
Lo spettacolo teatrale va in scena alle ore 21.30 a Palazzo Gambassi, via S. Bernardo 5, Fraz. Campsirago, Colle Brianza
Nell’ambito della programmazione invernale Campsirago Luogo d’Arte
BIGLIETTI: 12€ intero / 10€ ridotto (under 25, over 65, residenti di Colle Brianza)
Omaggi: accompagnatori persone con disabilità.
Posti limitati.
Acquisto dei biglietti in prevendita o direttamente in cassa (fino a esaurimento posti).
INFO: Mail info@campsiragoresidenza.it |Tel. 0399276070 / Cell. 375 67 00 532
Una serie di gesti feriali ed evanescenti che, grazie alla precisione e alla densità di questa artista minuta e possente, assumono la forza dell’oggettività, finanche dell’universalità. Histryo – Michele Pascarella
Mario-Paola trasmette poesia con ogni suo gesto, con ogni minima espressione. Se ti fermi a guardarla, così, spogliata di ogni sovrastruttura formale esistenziale, ti sembra di vedere il Teatro, ti pare di riuscire a catturarne l’essenza stessa in un unico scatto. Modulazioni Temporali – A.B.
[…] Si ride tra il pubblico, ma è una risata che bergsonianamente ha bisogno di anestetizzare il cuore per liberarsi, ha tutto il sapore di una fuga catartica da una tragedia che batte i tacchi dei coturni contro le tavole del palcoscenico fino a scheggiarle, perché siano loro a creparsi prima che sia l’essere umano a crepare. Se si guarda al di là del pirandelliano sentimento del contrario, manca il fiato nel vedersi rovesciare addosso la fatale indeterminatezza del vivere, l’insostenibile pesantezza dell’essere che ci si può scrollare di dosso, almeno per un lungo, lunghissimo istante con un gesto teatrale che, se non rappresenterà la felicità, riuscirà perlomeno a fare il verso a quell’asintoto dispettoso che la curva vitale non sarà mai in grado di incontrare. La Tintinelli riesce a fonosimboleggiare il suo stesso cognome e fa tintinnare le cose, lascia che a parlare sia il rumore degli oggetti, il linguaggio dell’inanimato che si deposita strato strato dopo strato sul fondo del suo viso, che prende a calci di dietro l’Urlo di Munch per piantarsi al suo posto al centro della tela, rimboccandosi le maniche al fine di mostrare cosa sia in grado di fare. Ecco un altro Bartleby delle periferie, uno che oppone il suo ostinato rifiuto, spiato nella sua intimità, quando è solo a far giocare i suoi tarli nella mente per vedere chi è il primo ad arrivare. Anche questo Mario avrebbe preferenza di no, e ce lo comunica con ogni movenza la cui intenzione deviante rende il gesto sofferto, tirato. Festeggia Mario la vita che non vive, sbatte simbolicamente in faccia a Montale, con un certo orgoglio, la sua esistenza vissuta al cinque per cento, recita metodicamente mentre preso dal periglio non sa più quello che fa, eppure veste più volte la giubba, ed ha infarinato la faccia, perché la gente ridere vuole. Gioca scientemente con il meccanismo della tensione-risoluzione musicale tornando reiteratamente con la testina del giradischi sull’incipit de” La gazza ladra”, per dipingere un impossibile sorriso esistenziale sul proprio vivacchiare, per illudersi di poter orgasmare più e più volte, sulla ripida scala del crescendo rossiniano. E quando il protagonista mette in scena la propria dipartita, e fa del suo totem impiegatizio, l’armadietto, la propria bara, getta gli ultimi sguardi disperati verso la platea, lascia kantor in un cantone, insieme al nano da giardino, e sembra comunicare la stessa speranza vergata da Frida Kahlo di non tornare mai più, si avverte il desiderio che possa rinascere di lì a pochi istanti per poterlo abbracciare fino a sentire la forma delle sue ossa, e si riesce a farlo allungando le mani e sonorizzando il più possibile gli applausi. Danilo Caravà