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Sabato, 20 Aprile 2024
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L’impatto ambientale della carne: perché è importante ridurne il consumo

La crescita della popolazione mondiale e della produzione di proteine animali ci impone una riflessione sui rischi ecosistemici degli allevamenti intensivi

Nell’ultimo anno la minaccia del cambiamento climatico è riuscita a smuovere la coscienza di milioni di persone. L’indignazione mondiale di fronte all’inazione di governi e industrie ha costretto questi ultimi a muovere i primi e veloci passi verso un futuro più pulito. Misure e politiche, però, possono contribuire solo in parte al successo della risposta globale al cambiamento climatico. Le azioni e soprattutto le scelte dei singoli individui contribuiscono, nel lungo periodo, a consolidare ed implementare la rotta a basse emissioni. Nel nostro piccolo, fare attenzione ai prodotti alimentari che acquistiamo e limitare il consumo di carne (soprattutto di carne bovina) può davvero fare la differenza.

È stato infatti calcolato che se solo la popolazione degli Stati Uniti decidesse di rinunciare a carne e derivati per un solo giorno alla settimana, in un anno, risparmieremmo alla nostra atmosfera l’inquinamento prodotto da 7.6 milioni di automobili.

La relazione tra consumo di carne e cambiamento climatico

Nell’ottica della lotta ai cambiamenti climatici, quello degli allevamenti intensivi e della produzione di carne animale è uno dei settori maggiormente presi di mira dalla comunità scientifica e dagli ambientalisti. L’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO) stima che l’industria del cibo sia complessivamente responsabile di un terzo delle emissioni globali di gas serra, mentre la maggior parte di queste emissioni (l’80% circa) può essere ricondotto alla produzione della carne e dei derivati animali. Gli attuali metodi di produzione della carne vengono sempre più spesso messi in discussione anche per via dell’elevato consumo di acqua da parte del bestiame, per gli effetti sul disboscamento delle foreste pluviali e per il ruolo degli allevamenti intensivi nella diffusione di malattie infettive compatibili con l’uomo.

La produzione di carne è, di fatto, un sistema decisamente inefficiente di produzione del cibo dal punto di vista dell’utilizzo delle risorse. Tale uso di risorse naturali, associato alla pratica degli allevamenti intensivi e all’uso di pesticidi, spesso avviene a discapito della biodiversità locale, ed ha un impatto negativo non indifferente sugli ecosistemi circostanti.

Il nesso tra produzione della carne e cambiamento climatico, però, è da ritrovarsi in particolar modo nelle enormi quantità di gas serra che questa rilascia nell’atmosfera. Innanzitutto, l’allevamento di animali comporta l’emissione diretta di un importante gas serra: il metano.

Cosa c’entra il metano con gli allevamenti?

I ruminanti (bovini e ovini) producono metano come effetto secondario dei propri processi digestivi e lo rilasciano in atmosfera in virtù di tali processi o con le esalazioni derivanti dal loro letame in decomposizione, il quale, va a contaminare anche le nostre falde acquifere.

Un sistema alimentare più equo: mangiando carne si emette di più

L’ultimo rapporto dell’IPCC, dedicato alle connessioni esistenti tra cambiamento climatico, uso del suolo e sistema alimentare, identifica i cambiamenti nella dieta come uno dei principali strumenti per diminuire le quantità di gas serra emessi nell’atmosfera. Circa il 25% degli attuali problemi ambientali sono infatti legati alle nostre abitudini alimentari.

La produzione di carne sul pianeta, quantificata in milioni di tonnellate di proteine (fonte: FAO)

Secondo l’IPCC, entro il 2050 i cambiamenti dietetici ed una maggiore propensione alle diete a base di vegetali e legumi potrebbero liberare diversi milioni di chilometri quadrati di terra e ridurre le emissioni globali di CO2 fino a 8 miliardi di tonnellate all’anno (circa il 21% delle emissioni odierne).

Quanto inquinano gli allevamenti intensivi?

La tecnica degli allevamenti intensivi permette agli allevatori di aumentare la capacità produttiva a dei costi nettamente inferiori rispetto alle normali pratiche di allevamento. Dagli anni 60 l’utilizzo degli antibiotici su larga scala ha permesso agli allevatori di concentrare gli animali allevati in spazi molto ristretti, evitando allo stesso tempo l’elevata diffusione di malattie batteriche tra il bestiame. L’aumento della produttività derivante dall’allevamento intensivo ha perciò permesso ai Paesi industrializzati di soddisfare la domanda in costante aumento e oggi almeno il 70% della carne prodotta proviene dagli allevamenti intensivi. Le carni bovine, di maiale e il pollame partecipano da sole al 93% del consumo di carne mondiale. Tutte e tre vengono prodotte attraverso l’allevamento intensivo, anche se vanno distinte per l’entità e per il tipo di impatto ambientale derivante dalla loro produzione.

Questa produzione di massa non è senza conseguenze, infatti l’allevamento intensivo contribuisce enormemente ai cambiamenti climatici e all’effetto serra, deforestazione, spreco d’acqua e la degradazione del suolo, acqua e aria. La FAO dice che l’allevamento intensivo genera 7 milioni di tonnellate di CO2.

Si pone un altro problema: la deforestazione per poter far spazio agli allevamenti intensivi, la stragrande maggioranza dei terreni agricoli (70%) è usata per piantare mais, grano e soia per nutrire il bestiame, questa quantità basterebbe a nutrire almeno 3 miliardi di persone. La mancanza di terreni agricoli porta alla deforestazione, è il caso in Amazzonia dove il 91% dei terreni recuperati tramite la deforestazione è usato per i pascoli o per la produzione di mangime che sarà poi dato in pasto al bestiame.

Un esame di coscienza

Queste attività commerciali rispondono a una domanda. E quella domanda la creiamo noi. Dal 1971 al 2010, a fronte di una crescita della popolazione globale del 81%, la produzione di carne mondiale è triplicata. Occhio pure alle campagne pubblicitarie che l’industria della carne ha messo in campo per apparire sostenibile: un’indagine di DeSmog, piattaforma d’informazione che combatte il negazionismo climatico e la disinformazione, ha concluso che tra le strategie più utilizzate ci sono quelle di mettere in dubbio l’efficacia delle alternative alla carne e i suoi sostituti e al contempo trascurare l’impronta ambientale dell’industria, oltre che esagerare il potenziale delle innovazioni agricole per ridurre l’impatto ecologico dell’industria dell’allevamento.

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