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“Il decreto delocalizzazioni aiuta chi vuole andare altrove, non mette paletti”

La posizione della Cgil Lecco sulla posizione del governo Draghi

Nota- Questo comunicato è stato pubblicato integralmente come contributo esterno. Questo contenuto non è pertanto un articolo prodotto dalla redazione di LeccoToday

Ad agosto 2021 è stata resa pubblica la bozza del decreto legge Orlando-Todde sulle delocalizzazioni, che riprende alcuni punti della “Legge Florange” francese. In sostanza si tratta di imporre un percorso obbligato per le imprese che decidono di chiudere o delocalizzare e, in caso di mancato rispetto, multe (2% del fatturato dell'ultimo esercizio) e inserimento in una black list che vieta per 3 anni l'accesso a finanziamenti o incentivi pubblici. Il decreto è rimasto in stallo per il mancato accordo con ministro Giorgetti sostenuto da Confindustria, che lo vede come un attacco alle imprese.

A novembre è stato presentato in parlamento un disegno di legge incentrato attorno al lavoro di un gruppo di giuslavoristi e degli operai della GKN (tra i quali componenti CGIL della RSU), l’azienda di Campi Bisenzio dove era stata aperta la procedura di licenziamento poi stoppata dal tribunale per condotta anti-sindacale.

A dicembre sono stati presentati in materia due emendamenti alla Legge di Bilancio:

  1. emendamento del governo (Todde-Orlando), molto più blando in quanto frutto di compromesso politico;
  2. emendamento Mantero-GKN, che condensa il disegno di legge presentato a novembre e ne riprende i punti principali. L’emendamento è stato bocciato.

Le principali differenze

L’emendamento del governo si applica solo a imprese che decidono di chiudere determinando almeno 50 licenziamenti in aziende di almeno 250 dipendenti, ma non a quelle che oggi stanno chiudendo e che hanno già avviato le procedure di licenziamento collettivo. Il piano industriale deve avere una durata di 12 mesi e non ha un obbligo di mantenimento dei livelli occupazionali, ma si limita a gestire “meno traumaticamente” la chiusura e i conseguenti esuberi, e in caso di cessione non vi è in capo al cessionario alcun obbligo di garantire i livelli occupazionali nè i trattamenti retributivi e normativi dei dipendenti ceduti. Non si richiede alcuna “autorizzazione” del Piano da parte del soggetto pubblico o del soggetto sindacale. Se il piano non viene presentato o se il piano non ha i requisiti richiesti dalla legge, l’impresa può licenziare senza problemi con una sanzione (pagamento del doppio del contributo di accesso alla Naspi).

L’emendamento Mantero-GKN si applica ad imprese che occupino più di 100 lavoratori a qualunque titolo impiegati (si computano anche lavoratori somministrati, contratti a tempo determinato, collaboratori ecc.), anche a quelle che oggi stanno chiudendo. Nel Piano industriale si è obbligati a prevedere misure che garantiscano il mantenimento del tessuto produttivo e dei relativi livelli occupazionali. In caso di cessione, ci si assicura di garantire che il cessionario sia solvibile e che garantisca i medesimi trattamenti economico-normativi ai lavoratori. Il soggetto pubblico deve verificare che con il Piano vengano garantiti i livelli occupazionali o la continuità produttiva, altrimenti non può autorizzare ma deve chiedere in una modifica che raggiunga quell’obiettivo. Il Piano deve essere approvato anche da parte delle rappresentanze sindacali in azienda o, in loro assenza, dai lavoratori: se l’impresa decide comunque di procedere con licenziamenti, viene punita con la nullità dei licenziamenti. Solo la proposta GKN attribuisce ai lavoratori il potere di costituire una cooperativa che goda di un diritto di prelazione e possa acquistare l’azienda o parte di essa a prezzo ridotto. Solo la proposta GKN dà allo Stato la possibilità di intervenire acquisendo l’azienda.

Diego Riva, segretario generale CGIL Lecco, spiega che “non ci convince per nulla l’attuale posizione del governo, dato che il provvedimento è una mera proceduralizzazione dell’esistente e rischia di dare il via libera alle imprese che hanno deciso di delocalizzare, piuttosto che mettere dei paletti. Chiunque sta ai tavoli di crisi sa bene che non bastano certo 12 mesi per concludere una reindustrializzazione. Ancora una volta, come accaduto per la riforma fiscale, il metodo del governo è sempre lo stesso: i sindacati e i lavoratori conoscono il provvedimento a cose fatte, e questo è inaccettabile. Sembrava che tutti avessero capito che per uscire dalla pandemia ed essere pronti ad affrontare le sfide del futuro nel solco del Pnrr ci fosse bisogno di fare squadra, ma alla prova dei fatti questo non è avvenuto. Se si vuole davvero cambiare marcia bisogna ripensare totalmente la politica industriale del Paese, individuando e sostenendo le filiere industriali che sono strategiche e non elargendo soldi a pioggia come accaduto nell’ultimo decennio (170 miliardi dati alle imprese). La logica delle multinazionali continua a essere la stessa, e non lo fanno perché sono in difficoltà ma per avere più profitti, lasciando indietro il concetto di responsabilità sociale che tutti gli imprenditori dovrebbero avere, soprattutto durante una pandemia. Un concetto centrale anche nella discussione sul tema della sicurezza sul lavoro, troppo spesso sottovalutato visto il drammatico numero di infortuni e incidenti mortali registrato nel 2021”.

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