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«Il Virus c'è ancora, anche nella Fase 2 serve la massima prudenza»

La testimonianza della calolziese Beatrice Stasi, direttore dell'ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, colpita e guarita dal Covid: «Sono stati giorni durissimi, per la popolazione e anche per il nostro team. Ora non bisogna abbassare la guardia e insistere con la ricerca»

Una laurea in scienze politiche, conseguita alla Statale di Milano unita all' Executive Master in management per le aziende ospedaliere presso la Scuola di Direzione Aziendale Bocconi, è stato il trampolino di lancio per l' attività che dal 1992 la vede impegnata a vari livelli nel delicato settore della sanità.

Parliamo di Maria Beatrice Stasi, residente a Calolziocorte con parte del suo cuore a Mandello del Lario, suo paese di origine dove è cresciuta. Approdata nel centro rivierasco dall'età dei due anni fino ai ventuno, qui risiedono i suoi affetti più cari. La madre, i fratelli. La sua carriera e formazione professionale parte negli anni Novanta presso le Asl di Merate, poi di Lecco e di Milano. A seguire nel 2011, la Valtellina e Valchiavenna, le zone dove con incarichi di direzione aziendale ha accumulato ulteriori esperienze custodite nel suo corposo curriculum.

Coronavirus, positiva la calolziese Stasi, direttore dell'ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo

Dal primo gennaio 2019, la chiamata a ricoprire l'incarico di direttore generale dell' Asst Papa Giovanni XXIII di Bergamo. Azienda sanitaria che in periodo di Coronavirus sovraintende anche il neonato ospedale da campo allestito dagli Alpini negli spazi fieristici della città guidata dal sindaco Giorgio Gori. Maria Beatrice Stasi, in un ritaglio di tempo stretto dall'emergenza pandemia ci rilasciato questa intervista.

Dottoressa, proviamo a ripercorrere questo momenti difficili che hanno segnato la vita di ciascuno di noi...

«A Bergamo abbiamo vissuto una situazione eccezionale che non è confrontabile con quella che si è verificata in altre regioni e province lombarde. La rapidità con cui il virus si è diffuso e la gravità dei sintomi e della patologia hanno messo a dura prova gli ospedali. Al Papa Giovanni siamo stati un’ora avanti le infezioni per settimane, aumentando al massimo i posti i terapia intensiva. Siamo anche passati da 40 letti destinati normalmente alla malattie infettive fino a 450 destinati alla cura dei pazienti Covid. In poche ore abbiamo provveduto all'allestimento di un nuovo impianto per l'ossigeno. Intervento a sostegno di un'attrezzatura non più rispondente ad un afflusso di ammalati di grande portata. Anche l'ospedale di San Giovanni Bianco dipendente dalla nostra struttura in pochi giorni è stato trasformato in nosocomio covid. Uno sforzo organizzativo immane che non ha precedenti. Una pandemia che nessuno può ricordare se non facendo memoria alla Spagnola di un secolo fa. Chi non è stato sul campo forse non ha colto in tutta la sua forza d'urto ciò che abbiamo vissuto. Un vero e proprio stato di guerra».

Anche lei purtroppo ha dovuto affrontare il Covid-19, come ha vissuto quelle giornate?

«Mi sono ammalata anch'io. Fortunatamente ho potuto curarmi a casa. È stata dura. La malattia in isolamento, la grande preoccupazione per ciò che si affrontava in ospedale, con la sensazione  che la curva non si fermasse mai! Tenere insieme le persone, la squadra, non è stato facile. Chi si è ammalato ha lavorato da casa. In ospedale tantissimi si sono prodigati senza riserve. Dai medici, infermieri ai tecnici agli amministrativi alle ditte esterne. Uno sforzo che ha guadagnato affetto e solidarietà non solo dai bergamaschi ma oserei dire dall'Italia e dal mondo».

Nel varcare la soglia dell'ospedale il proprio privato assume un ruolo di secondo piano. Dentro ci sono persone, casi, aspettative. Un suo commento? 

«È vero. Il nostro è un  lavoro che lascia poco tempo per la vita personale di tutti noi. A maggior ragione in tempo di emergenza. In ospedale il lavoro è stato ed è ancora frenetico. L'unità di crisi istituita già il 22 febbraio, ora affronta la fase due che vede la presenza a partire dal pronto soccorso di pazienti Covid e non Covid. C'è un grande lavoro sui percorsi, su come riorganizzare l'attività ambulatoriale per evitare gli assembramenti e per riprogrammare l'azione chirurgica».

Quali le relazioni istituzionali?

«Tanta la vicinanza istituzionale. Oltre al Presidente Attilio Fontana che ho accolto all'ospedale degli Alpini in fiera a Bergamo che è presidio medico avanzato del Papa Giovanni, ho ricevuto telefonate dal premier Giuseppe Conte, incontrato poi anche in Prefettura nella sede cittadina nei giorni scorsi. E poi ancora la Presidente del Senato Casellati e il Vescovo Beschi portatore della voce della Santa Sede».

Dottoressa Stasi, un monito per la seconda fase che inizieremo a vivere da lunedì 4 maggio? 

«Ci auguriamo che questo passaggio non venga inteso da nessuno come una sorta di "libera uscita". Il virus c'è ancora, semplicemente è rimasto chiuso senza circolare. Spero ci sia prudenza e massima osservanza delle prescrizioni. Non voglio neanche pensare per un momento che in ospedale si possa ritornare ai giorni terribili che abbiamo appena attraversato».

A livello di ricerca cosa si sente di dire?

«Il Papa Giovanni XXIII è un ospedale che fa molta ricerca clinica. Proprio in questi giorni, considerata la rilevante esperienza maturata sul campo, abbiamo varato il progetto Covid19-Lab con l’obiettivo di promuovere e attivare anche al nostro interno la ricerca che aiuti a conoscere, a curare e a sconfiggere il virus. Alcune evidenze sono già state condivise con il mondo scientifico. Tutti noi al Papa Giovanni crediamo che la ricerca sia l’unica strada per battere il Covid e siamo già al lavoro con numerosi progetti di studio».

(Si ringrazia Alberto Bottani per la collaborazione)

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